[Via nad.unimi.it]
di Jan Sawicki
In tempo di pandemia, una delle prime decisioni di quasi tutti gli ordinamenti almeno formalmente democratici è quella di sospendere i procedimenti elettorali o referendari e rinviarli a dopo che l’emergenza sia cessata, o almeno sia tenuta in parte sotto controllo. Questo è il caso persino dell’Ungheria, il cui tasso di democraticità secondo canoni riconosciuti è sempre più messo in discussione ovunque.
Cosa succede se uno Stato, che fa parte dell’Unione europea, deve svolgere elezioni presidenziali regolarmente programmate in una data in cui, verosimilmente, il virus Covid-19 dovrebbe raggiungere il culmine della propria diffusione? La risposta al quesito dipende da quale sia lo Stato in questione. Se si tratta della Polonia del 2020, può essere paradossale. Le esigenze della democrazia liberale e costituzionale possono e devono essere sacrificate sull’altare di una democrazia puramente nominale e formale, che a questo punto rischia di diventare fittizia persino sugli ultimi due aspetti. Ma questa democrazia nominale non può scomparire perché serve a rinnovare legittimazione a un partito e a un governo che hanno beneficiato di anni di crescita economica ininterrotta facendo spesa pubblica oltre le proprie possibilità, e che ora temono, per i prossimi mesi, la distruzione dell’economia nazionale con fallimenti a catena di imprese, licenziamenti di massa e una crisi conseguente delle finanze statali. Non potendosi negare il nucleo minimo formale di legittimazione elettorale al potere, è indispensabile quindi svolgere le elezioni subito ad ogni costo. Ogni mese che passa, infatti, potrebbe mettere in evidenza l’impreparazione del governo all’emergenza sia sul piano economico che su quello sanitario, esponendo anche il presidente in carica a un rischio sul piano elettorale. Il paradosso è dunque che, nella data situazione, sono i candidati delle opposizioni a invocare il rinvio delle elezioni presidenziali già indette per il 10 maggio, e rivolgersi al governo perché introduca lo stato di calamità naturale, senza il quale le elezioni non possono essere rinviate; uno stato che, secondo l’art. 232 della Costituzione, può durare fino a trenta giorni ma è prorogabile previa autorizzazione del Sejm, e impone di sospendere ogni tipo di votazione pubblica fino a 90 giorni dalla sua cessazione (‘combinato disposto’ con l’art. 228). Mentre per contro è il partito di governo (PiS, “Diritto e giustizia”) a voler procedere con le elezioni (a margine di tutto ciò: tutti sanno dai sondaggi che le opposizioni, nella situazione di emergenza attuale, hanno buone probabilità di perdere, e il presidente in carica, Andrzej Duda, di essere confermato).
Fin quando, qualche settimana fa, le dimensioni dell’epidemia potevano sembrare in Polonia (almeno a qualcuno) trascurabili, l’orientamento dominante era quello di far svolgere le elezioni come se nulla fosse accaduto. Per orientamento si intende quello personale di Jarosław Kaczyński, il leader del PiS e il vero capo politico nazionale benché non ricopra alcuna carica statale all’infuori di quella di deputato, ma senza la cui volontà nessuna sostanziale decisione politica può essere presa. Quando persino a lui è dovuto cominciare a diventare chiaro che l’aggravamento del contagio era inevitabile, si è affacciata improvvisamente l’idea delle elezioni per corrispondenza. In una prima legge per fronteggiare il versante economico dell’emergenza, era stata inserito il voto per corrispondenza limitato ai soggetti posti in quarantena obbligatoria e agli ultrasessantenni in quanto individuati – già con qualche arbitrarietà almeno i secondi – come categorie a rischio. Le rimostranze sempre più diffuse nel mondo politico, in quello accademico, negli opinion-makers, rispetto all’indifferenza per i rischi nella popolazione generale, hanno indotto molto rapidamente il PiS a tornare sui suoi passi e a generalizzare in forma obbligatoria il voto per corrispondenza, una facoltà cui lo stesso partito era sempre stato ostile, e che esso aveva rimosso dalla legislazione elettorale appena due anni prima, con l’argomento tra l’altro che questa modalità di espressione del voto diminuiva le garanzie sul piano della segretezza e della fedeltà dello scrutinio.
Una prima votazione persa a metà giornata del 6 aprile al Sejm (228 voti a favore, altrettanti contrari e 3 astenuti) non ha tuttavia fatto perdere d’animo il partito, com’è tipicamente nel suo stile. In serata è stata presentata una nuova proposta di legge, in gran parte riproduttiva di quella precedente ma formalmente diversa. Discussa e messa ai voti in tempi rapidissimi, nonostante norme regolamentari di emergenza che distribuiscono i deputati in varie sale oltre a quella plenaria, e rallentano i tempi dello scrutinio elettronico, la proposta è stata approvata nella notte con 230 voti contro 225. Questa volta “Diritto e giustizia” è riuscito a far rientrare in parte il dissenso della piccola formazione “Porozumienie” nel gruppo parlamentare che porta l’acronimo del PiS, e ha imposto così un testo che passa ora all’esame del Senato (su questo si dirà dopo). Per inciso, nell’ambito di costume ormai piuttosto abituale: a) l’intera materia elettorale è soggetta in Polonia a un apposito codice, quello attuale risalente al 2011, e questo tipo di strumenti normativi sono sottratti dai regolamenti parlamentari al procedimento legislativo accelerato che invece è stato applicato alla proposta di legge in questione; b) una risalente giurisprudenza del Tribunale costituzionale, ma anche quella europea (Ekoglasnost c. Ungheria, 30386/05) proibisce di approvare modifiche sostanziali della legislazione elettorale almeno sei mesi prima che essa possa trovare applicazione.
Nel merito delle innovazioni sostanziali, esse sono veramente corpose. Prima di esaminare gli aspetti relativi alle modalità di espressione del voto, si ritiene opportuno richiamare l’attenzione sull’apparato di coloro che saranno preposti allo scrutinio dello stesso. Le tradizionali sezioni elettorali, o commissioni elettorali di sezione (obwodowe komisje wyborcze), nel numero di 27.400 alle ultime elezioni politiche, formate con il coinvolgimento degli enti locali e che in un quarto di secolo hanno dato prova di affidabilità, sono sostituite da un numero molto più ristretto di sezioni elettorali comunali i cui membri dovrebbero essere indicati dai candidati di riferimento alle stesse elezioni presidenziali secondo un criterio paritario (ma molto e inusuale spazio, al riguardo, è lasciato ai regolamenti di attuazione, che sono verosimilmente già pronti ma saranno pubblicati solo dopo l’entrata in vigore della legge, a ridosso del resto delle elezioni). Con ciò si fa un altro passo in direzione della strumentalizzazione partitica del procedimento elettorale, mettendo tutti gli altri candidati, al di fuori del presidente in carica Andrzej Duda, sostenuto dal PiS – il quale caldeggia questa iniziativa –, di fronte a un primo dilemma: o accettano le condizioni di questa forzatura del processo elettorale a fini di parte, o si autoescludono del tutto dal processo stesso, restando poi impossibilitati a controllare cosa avviene durante lo scrutinio. Per inciso, già nel gennaio 2018, con effetto dal novembre 2019, erano state demolite le basi di un’amministrazione elettorale completamente indipendente, che dalla Polonia, fin dal 1991, erano state considerate esempio di una good practice a livello mondiale. Con effetti dalla fine dello scorso anno, infatti, i nove membri della Commissione elettorale nazionale (Państwowa Komisja Wyborcza) non sono più selezionati in ragione di tre ciascuno presso i giudici della Corte suprema, del Tribunale costituzionale e del Supremo tribunale amministrativo, ma tra due giudici dei Tribunali costituzionale e amministrativo e sette membri eletti dal Sejm. Con un accorgimento molto ricorrente nei nuovi sistemi illiberali, si è usato il pretesto della ‘democratizzazione’ per politicizzare la composizione di un organo di garanzia assicurando al partito dominante una posizione solida, se non dominante, entro lo stesso.
La proposta di legge precisa al suo articolo uno di costituire una deroga alla disciplina generale delle elezioni presidenziali, contenuta negli artt. 287-327 del codice elettorale, la quale rimane in vigore. L’art. 3 costituisce il cuore di questa disciplina elettorale speciale. L’«operatore indicato» nella legge 23 novembre 2012, recante «Diritto postale» – in sostanza la Posta polacca, o Poczta Polska – è incaricato (art. 3, primo comma) di tutte le operazioni necessarie a recapitare presso il domicilio di ogni elettore polacco, possibilmente nella casella postale, il «plico elettorale» (pakiet wyborczy) necessario per le operazioni di voto, che si dovranno compiere tra le 6 e le 20 della giornata per cui le elezioni sono indette. Il plico (terzo comma) è costituito da una busta principale, dalla scheda elettorale su cui esprimere il voto, da un foglio recante istruzioni, da un altro foglio con dichiarazione precompilata attestante che l’elettore ha votato in modo personale e segreto, dichiarazione che però l’elettore deve completare aggiungendo la propria sottoscrizione, i dati anagrafici e il codice PESEL (all’incirca è l’equivalente del codice fiscale italiano), e infine deve contenere due buste da restituire. Una volta espresso il voto, l’elettore deve inserire la scheda in una busta minore, che deve sigillare, e deve inserire poi quest’ultima, insieme alla dichiarazione compilata e firmata, nella busta maggiore. L’elettore (art. 5) deve poi di persona – «o con l’intermediazione di un’altra persona», non meglio precisata – recapitare quest’ultima busta presso una «cassetta postale» appositamente predisposta dalla Posta in ciascuno dei 2477 comuni di cui è composto il paese (senza considerare le dimensioni di ogni comune, almeno stando alla legge: solo Varsavia, per 1.700.000 abitanti, avrà una cassetta per ogni quartiere di cui è composta). I membri di ciascuna commissione elettorale comunale dovranno (art. 5, commi 4 e 5) aprire la busta principale, inserire in un’urna le buste minori, ancora chiuse, contenenti la scheda elettorale, dopo aver accertato che sia presente la dichiarazione validamente sottoscritta, che deve essere archiviata a parte.
Le commissioni elettorali di sezione, già formate per legge, sono sciolte di diritto. La composizione delle commissioni elettorali comunali ‘straordinarie’ è definita dall’art. 10 della proposta di legge. Al fine di dare riguardo al peso demografico dei singoli comuni, è previsto un criterio di proporzionalità regressiva, da un minimo di tre a un massimo di 45 componenti per ciascuna commissione comunale, con possibilità di ricorrere al sorteggio ove il numero dei candidati sia superiore a quello dei componenti. Le attività necessarie alla formazione di queste commissioni sono affidate a commissari a ciò delegati dal ‘voivoda’, che nell’ordinamento polacco rappresenta il governo centrale all’interno di ciascuno dei sedici voivodati (województwa), controllando l’autonomia delle politiche regionali. In definitiva il processo elettorale è sottratto nei suoi aspetti principali alla Commissione elettorale nazionale e affidato all’esecutivo. Spetta ai commissari definire le sedi di ogni commissione elettorale comunale (art. 12). Ma le autorità municipali hanno l’obbligo di mettere a disposizione le sedi necessarie. Inoltre devono predisporre e mettere a disposizione di tutti i membri di ciascuna commissione elettorale, in quantità sufficiente, (art. 12, comma 5) i «mezzi di protezione personale necessari a fronteggiare l’epidemia Covid-19». Questa norma rileva se si considera che moltissimi sindaci, non solo quelli legati alle opposizioni (prevalenti soprattutto nelle principali città), avevano espresso ostilità all’organizzazione della stessa consultazione, temendo per i rischi sanitari, subendo anche pressioni e minacce da parte di esponenti del partito dominante (sarà però il ministro della sanità a definire i criteri per garantire la sicurezza delle commissioni, con proprio regolamento che evidentemente verrà pubblicato a ridosso del voto). Sono previste sanzioni penali fino a tre anni di detenzione (art. 18) per chi si impossessi della scheda elettorale o della dichiarazione altrui o le presenti alterate o contraffatte nella casella postale, mentre è soggetto a sanzione pecuniaria chi apra senza averne diritto il plico elettorale o le buste elettorali di ritorno. Infine, un’altra norma di rilievo (art. 20, secondo comma) è quella che prevede la possibilità, qualora sia stato dichiarato sul territorio nazionale lo stato di epidemia, di rinviare ad altra data lo svolgimento delle elezioni presidenziali già indette con precedente decreto, a condizione che tale data rientri nei termini previsti dalla Costituzione.
Ora, poiché la Costituzione, all’art. 128, stabilisce che le elezioni presidenziali devono essere indette per una data non anteriore a 100 e non successiva a 75 giorni prima della scadenza del mandato del presidente in carica, e poiché in concreto tale scadenza avverrà il prossimo 6 agosto, ne consegue che vi sarebbero i tempi costituzionali per svolgere le elezioni anche il 17 maggio, anziché il 10 maggio, data già scelta fin dallo scorso febbraio, con l’avvio conseguente di tutti i relativi procedimenti ormai molto avanzati. A parte il fatto che si cita pretestuosamente un rispetto formalistico per la Costituzione, nel momento in cui implicitamente si prevede di farne un uso quanto meno arbitrario – col rinvio in extremis di un termine già formalizzato –, fornendo in tal modo un esempio fulgido del c.d. illiberal constitutionalism, vi è da chiedersi il perché di una tale previsione.
Essa è dovuta ad altre implicazioni, giuridiche e al tempo stesso politiche. Tutte le iniziative di legge, approvate dalla camera ‘bassa’, devono essere trasmesse al Senato, che può esaminarle, per modificarle, respingerle o rinviarle invariate al Sejm, entro il termine di trenta giorni dalla data in cui l’iniziativa gli è pervenuta. Nelle ultime elezioni politiche, dell’ottobre 2019, il cartello informale delle opposizioni democratiche, centriste e di sinistra, è riuscito a conquistare al Senato una risicata maggioranza (51 contro 49, tenendo conto di alcuni indipendenti in entrambi gli schieramenti). Anche se una sua reiezione può essere superata a maggioranza dei voti dal Sejm, era stato messo già in conto che il Senato avrebbe usato tutto il tempo a sua disposizione per ‘riflettere’. Ciò comporterebbe l’impossibilità per la legge di essere pubblicata ed entrare in vigore prima del 7 maggio, tre giorni prima delle elezioni, con numerosi regolamenti di attuazione – ai quali è stato lasciato uno spazio inusitato – ancora da pubblicare e portare a conoscenza delle amministrazioni che li devono applicare. Questo a sua volta potrebbe rendere difficile attenersi alla data prefissata e necessario rinviarla secondo un gradimento non condiviso, ma proprio unicamente di una parte politica.
L’emergenza sanitaria in corso fa della Polonia un banco di prova dei fondamenti più elementari di una democrazia, le elezioni, proprio in una fase storica in cui la democrazia in senso liberale vi è sottoposta a un ulteriore logoramento che può rivelarsi letale. Svolgere elezioni presidenziali in questo duplice stato di eccezione democratica e sanitaria, dunque, potrebbe fare del paese più una cavia che un banco di prova o un laboratorio che possa essere utile per altre esperienze. L’assenza di uno degli ‘stati straordinari’ (stany nadzwyczajne) previsti dal cap. XI della Costituzione, quando vi sarebbero tutte le condizioni per proclamarlo, da un lato rende dubbie dal punto di vista costituzionale – ma a questo punto, sarebbe il meno – le aspre misure di contenimento che sono state prese, con fondamento legislativo assai generico e sulla base di normativa secondaria (e su cui pure bisognerà tornare), ma dall’altro stride con la pretesa di normalità che vuole lo svolgimento di elezioni ad ogni costo, sia pure con nuove modalità. Peraltro, qualora la situazione si dovesse aggravare, questo non depone neanche a favore della sicurezza, sul piano sanitario-epidemiologico, di questo procedimento elettorale straordinario. Lo testimoniano l’ansietà espressa tra i dipendenti delle poste, i rilevamenti demoscopici che lasciano presagire un crollo nell’affluenza alle urne, dubbi tra coloro che potrebbero essere chiamati allo scrutinio. Basti solo considerare che le caselle postali speciali allestite per l’occasione sarebbero – stando almeno al testo della legge – molte meno delle sezioni elettorali ordinarie, e che gli stessi scrutatori, oltreché selezionati secondo criteri politici, saranno in numero più basso, specie nelle principali città (nella sola Cracovia 45 anziché oltre 4000 alle ultime elezioni). La proclamazione dei risultati potrebbe richiedere molti giorni. Molti dubbi sono e saranno espressi con riferimento alla reale libertà e segretezza del voto, dal momento che la legge lascia spazi per abusi soprattutto domestici, quanto meno teorici, senza contare numerose difficoltà frapposte agli elettori residenti all’estero. Vi saranno basi per contestazioni legali dei risultati, la cui validità è in Polonia dichiarata dalla Corte suprema (art. 129 Cost.), ma proprio questa è nell’occhio del ciclone per le modifiche alla sua composizione: ad accertare la validità delle elezioni dovrebbero essere i giudici della sezione di controllo straordinario e degli affari pubblici, di nuova istituzione e interamente composta di giudici selezionati – sia pur indirettamente – dal PiS.
In generale, questa vicenda fornisce ulteriori spunti di riflessione sui connotati delle cosiddette ‘democrazie illiberali’. Come si cercava di dire in esordio, esse hanno un rapporto del tutto utilitaristico e strumentale anche con il mero momento elettorale, che pure – giustamente – si dice essere solo una parte, e neppure decisiva in tutto, di una democrazia compiuta. Da questo punto di vista, il contrasto con ciò che avviene attualmente in Ungheria, dove le elezioni sono annullate o sospese di fatto a tempo indeterminato, per volontà del governo e finché essa resterà tale, è un contrasto solo apparente. In quel paese il processo elettorale è appunto sospeso, ma l’arbitrarietà della sua sospensione si rinviene a partire dal fatto che quest’ultima possa essere revocata quando, o fin quando, i titolari del potere si sentiranno sicuri di poter riportare un nuovo successo; mentre potrebbe essere mantenuta, con pretesti, qualora dovessero temere mutamenti di orientamento degli elettori. In Polonia l’insistenza sulle elezioni da parte della classe di governo, in questo momento, non fa quanto meno deporre a favore di un genuino sentimento democratico in seno alla stessa. Imposta ora, essa potrebbe rapidamente tramutarsi in qualcosa di ben diverso in un prossimo futuro.