LA GESTIONE DELLA PANDEMIA TRA COSTITUZIONE E STATO DI ECCEZIONE: ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI

Edoardo Ferrero*

In questi giorni è stato ripetuto, da più voci, che non avremmo dovuto lamentarci di stare rinserrati in casa poiché il nostro sforzo non era minimamente paragonabile ai sacrifici dei genitori o nonni durante le grandi guerre del secolo scorso.

Il pensiero senz’altro condivisibile e ha suscitato in me un’altra riflessione: gli stessi nostri progenitori, che hanno patito tali sofferenze e che in molti casi hanno addirittura perso la vita per la libertà, cosa avrebbero pensato delle restrizioni alla libertà derivanti dalla situazione attuale?

Il risultato di quello sforzo collettivo, che si è protratto per anni, è suggellato nella nostra costituzione, che delinea uno Stato sociale di diritto, nel quale sono riconosciute e garantite sia le libertà individuali sia i diritti sociali, tra cui il diritto della salute.

Come noto, però, la Costituzione non stabilisce una gerarchia tra questi valori. In particolare, la Costituzione non fa prevalere la salute, che pure viene qualificata come “diritto fondamentale”, sulla libertà personale, che ancora più enfaticamente viene definita “inviolabile”.

La questione del bilanciamento di valori contrapposti è una costante delle moderne democrazie occidentali, come si è visto, ad esempio, nella vicenda dell’Ilva di Taranto, dove il diritto alla salute e la tutela dell’ambiente si sono scontrati con il diritto al lavoro e la libera iniziativa economica.

Sono questioni che non trovano una risposta nella legge astratta e che quindi finiscono con l’essere divisive all’interno dell’opinione pubblica: così è stato per la gestione della pandemia, nella quale il bilanciamento dei valori è stato effettuato dal Governo in un periodo di forte agitazione pubblica.

Oltre a non prevedere una gerarchia di valori, la Costituzione non prevede nemmeno l’ipotesi dello “stato di emergenza sanitaria” ma si limita a prendere in considerazione soltanto lo “stato di guerra”.

A mio avviso, è significativa questa scelta: ai tempi dell’Assemblea Costituente, infatti, il fenomeno delle pandemie era conosciuto come quello della guerra[1].

Cosa hanno in comune la pandemia e la guerra? Entrambi i fenomeni sono talmente gravi da imporre la sospensione del rispetto della legge scritta in ragione del superamento della situazione stessa. È il cosiddetto “stato di eccezione”[2], nel quale il capo del governo può salvaguardare l’interesse collettivo anche a costo di andare a ledere i diritti individuali.

Tuttavia, i padri costituenti non hanno equiparato queste circostanze.

In un caso – lo “stato di guerra”, la Costituzione stabilisce procedure specifiche a garanzia dell’assetto democratico, prevedendo che lo Stato di guerra debba essere dichiarato dal Presidente della Repubblica previa deliberazione delle Camere del Parlamento, che individuano e conferiscono al Governo i poteri necessari[3].

Nell’altro caso – lo “stato di emergenza sanitario”, la Costituzione nulla dice, prevedendo quindi, in modo implicito, che il Governo debba esercitare i poteri ordinari.

Nel caso concreto, però, non è andata così: il Governo ha dichiarato da sé lo stato di emergenza sanitaria[4] e, facendo leva sull’eccezionalità delle circostanze, ha inciso sulle libertà personali, talvolta senza chiare limitazioni di tempo, mediante atti amministrativi, senza coinvolgere il Parlamento e – per di più – con i Palazzi di Giustizia chiusi[5].

Come è stato possibile tutto ciò? Probabilmente, perché si è diffusa la paura, veicolata anche da alcuni organi di informazione e soprattutto dai social network.

Questo non significa che i provvedimenti adottati dal Governo non fossero concretamente giustificati dall’emergenza che ci ha travolto, ma solo che la sostanza (meglio, il contenimento della pandemia) è prevalso sul rispetto della forma.

Forma che, pure in questi momenti, però, avrebbe conservato un suo significato, poiché non è solo espressione di civiltà giuridica ma molto di più. È la barriera tra il forte (il potere pubblico) e il debole (il cittadino)[6]. È la base del patto sociale, che presuppone la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa comune.

Nel caso di specie è probabilmente mancato il rispetto della forma istituzionale ma è stato il cittadino a rinunciare a un diritto (la libertà personale, che è astrattamente irrinunciabile) solo per dovere di solidarietà a fronte dell’emergenza sanitaria, al di fuori dei consueti circuiti istituzionali, che avrebbero imposto un maggiore coinvolgimento del Parlamento in un momento così delicato[7].

L’auspicio è che si torni presto a rispettare la forma, così da poter porre alle spalle lo stato di eccezione, con tutte le paure che comporta, e ristabilire l’assetto ordinario, alla cui definizione hanno dolorosamente contribuito i nostri genitori o nonni.

La sfida è tanto importante quanto più si tiene presente che la posta in gioco è data dal mantenimento dei valori e delle idee sottese all’ordine liberaldemocratico: la pandemia si rivela così il banco di prova della loro sopravvivenza in un sistema giuridico-istituzionale che probabilmente cambierà.

Ma una cosa è modificare quest’ordine per renderlo più idoneo alla gestione dei rischi; un’altra cosa è abbandonare questi valori per entrare in un ordine costituzionale radicalmente diverso, che è quello dei sistemi illiberali, connotati da chiusura dei confini, governi autoritari, privazioni delle libertà, abbandono dello Stato di diritto, controllo pubblico dell’economia e affidamento della sovranità estera alla custodia di una delle potenze globali oggi esistenti.

Per questa ragione, occorre forse un’assunzione di responsabilità collettiva, da parte dell’intera popolazione e dei corpi intermedi prima ancora che delle istituzioni tradizionali, così da contemperare il troppo spesso ricorrente sgravio di responsabilità del mondo politico a sfavore di quello scientifico[8].


* Avvocato e Dottore di ricerca in Torino.

[1] Si pensi, ad esempio, all’influenza spagnola che è dilagata negli anni 1918-20.

[2] Sul concetto di “stato di eccezione” si rimanda all’elaborazione di C. Schmitt, abbozzata prima in La dittatura: dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Bari, 1975 per poi essere messa a punto in Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, all’interno di Le categorie del politico, Bologna, 2014. Nel primo di questi testi, lo stato di eccezione è presentato come espressione della dittatura e, dunque, come una condizione di sospensione del diritto, mentre nel secondo l’Autore si sofferma sul tema della sovranità, giungendo ad affermare che “sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”. Sullo stesso tema, si veda anche il differente punto di vista di G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003, il quale ha declinato il concetto astratto nella realtà concreta degli assetti costituzionali delle moderne democrazie occidentali.

[3] Ai sensi dell’art. 78 della Costituzione, “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. Il successivo art. 87, co. 9 aggiunge poi che il Presidente della Repubblica “ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”.

[4] Ci si riferisce alla tanto contestata Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 avente ad oggetto “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

[5] Per una critica al modus procedendi, si rinvia all’accurata disamina di L.A. Mazzarolli, ”Riserva di legge” e ”principio di legalità” in tempo di emergenza nazionale, in Federalismi, Osservatorio Emergenza Covid-19, I, 13 marzo 2020. Si veda anche F. Cintioli, Sul regime del lockdownin Italia (note sul decreto legge n. 19 del 25 marzo 2020) in Federalismi, Osservatorio Emergenza Covid-19, I, 13 marzo 2020.

[6] La citazione è di A. de Tocqueville, La democrazia in America, Torino, 2007, ed è tratta dal pensiero di R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo, Bari, 2014, passim.

[7] In senso pressoché analogo si esprimono anche M.G. Civinini – G. Scarselli, Emergenza sanitaria. Dubbi di costituzionalità di un giudice e di un avvocato, in Questione Giustizia, 14 aprile 2020.

[8] Si condivide quindi il pensiero di R. Tumbiolo, L’avanzata del “male comune”, in RGA Online, 4 aprile 2020, secondo il quale la condivisione dell’impegno è ciò che consente di conservare un “bene comune” oppure di sconfiggere un “male comune”. In tali situazioni, si deve entrare insieme nella situazione per risolverla e non semplicemente preoccuparci di uscirne da soli.

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