di Jan Sawicki[1]
La pandemia del Coronavirus può essere facile pretesto, o triste necessità, per allentare le garanzie di ogni ordinamento costituzionale, ma nella lunga notte dell’emergenza tutti i gatti rischiano di apparire grigi. Bisogna allora distinguere tra gli sforzi di contenimento di una pandemia, che in ogni regime democratico-liberale possono comportare alterazioni provvisorie, o magari più o meno durature, del quadro delle competenze normative con annessi errori – a margine delle complicazioni sanitarie ed economiche –, e situazioni di natura diversa. Queste ultime possono verificarsi quando un sistema rappresentativo, già carente di salute per derive di tipo illiberale, piuttosto che essere colto di sorpresa, malvolentieri, da una minaccia mortale cui far fronte, è il primo a cogliere nell’evento imprevisto l’occasione insperata per portare a termine un’operazione autoritaria che altrimenti sarebbe stata più difficile da compiere.
È questo che sta accadendo in Ungheria oggi? Il riferimento ovvio è alla legge cardinale approvata in via definitiva lo scorso 30 marzo dal Parlamento, o Assemblea nazionale (Országgyűlés), con la consueta schiacciante maggioranza – stavolta 137 a favore e 53 contrari – che da dieci anni a questa parte accompagna fasti e trionfi del partito Fidesz, consentendogli di scrivere ex novo costituzioni, adeguarle istantaneamente alle esigenze del momento, approvare decine di leggi cardinali (sarkalatos törvények), eleggere una moltitudine di personalità alle più disparate cariche nelle autorità amministrative, nel giudiziario e in altre istituzioni di garanzia, e infine ripristinare persino con maggiore forza normativa disposizioni già invalidate da un giudicato costituzionale.
L’occasione è quella nota a tutti. Il fondamento costituzionale, come già spiegato, è lo “stato di pericolo estremo” di cui all’art. 53 della Legge fondamentale del 2011, pensato per fronteggiare situazioni derivanti da disastri naturali e incidenti industriali (la stessa Legge fondamentale contiene una disciplina analitica e dettagliata di numerosi “stati giuridici speciali”, che va dall’art. 48 all’art. 54, ma è quello qui in discussione che è parso il più pertinente alla situazione attuale). È opportuno in primo luogo esaminare brevemente il contenuto dell’art. 53, sia per sé considerato sia per valutare la coerenza con esso di tutte le misure successivamente adottate.
Da questo punto di vista, si rileva che lo stato di pericolo estremo viene constatato e dichiarato direttamente dal governo – diversamente per esempio dallo stato di difesa preventiva o da quello di minaccia terroristica, che devono essere dichiarati dal Parlamento – il quale è anche competente a dichiararlo cessato, come si ricava implicitamente dal fatto che – quarto comma dello stesso art. 53 – con tale cessazione perdono efficacia i decreti governativi ad esso riconducibili, e più esplicitamente dal fatto che l’art. 54, secondo comma, LF, dispone che ogni stato di eccezione «deve essere revocato dall’autorità che lo ha legittimamente introdotto, allorquando non sussistano più le condizioni per il suo mantenimento». Per l’ulteriore attuazione dello stato di pericolo, l’art. 53 dispone l’adozione di una legge cardinale – una delle tantissime di cui è costellata Legge fondamentale – come disciplina generale di tutti i singoli provvedimenti puntuali, i quali a loro volta consistono in decreti governativi. Tali decreti governativi hanno due caratteristiche fondamentali, contrastanti con le fonti ordinarie previste in generale dall’ordinamento magiaro: la provvisorietà (terzo comma), che ne limita l’efficacia a quindici giorni salvo che il governo stesso sia abilitato dal Parlamento a prorogarli; e la forza di legge, riscontrabile a partire dal fatto che essi (secondo comma) possono «sospendere l’applicazione di alcune leggi» come «derogare a disposizioni normative in vigore» (si deve presumere anche a carattere legislativo). In linea di principio, pare quindi che tali decreti debbano possedere una forza di legge in qualche misura attenuata, dal momento che potrebbero solo stabilire eccezioni o sospensioni provvisorie delle leggi in vigore, e non sarebbero quindi abilitati a modificarne il contenuto in modo permanente, innovando l’ordinamento.
Lo stato di pericolo estremo, dunque, può essere revocato dal solo governo. Ed è quest’ultimo a stabilire quando non sussistano più le condizioni per il suo mantenimento, con valutazione non soggetta ad apprezzamento di altri soggetti né a scadenze temporali quand’anche rinnovabili. Anche ad immaginare una sostanziale alterità di indirizzo politico tra legislativo ed esecutivo, il che è in genere evento raramente riscontrabile nelle forme di governo parlamentari contemporanee – e lo è a maggior ragione in una situazione come quella ungherese – il ruolo del Parlamento in questa situazione può essere, nel migliore dei casi, quello di un comprimario, per non dire un petente, che rivolge istanze al vero decisore. È dunque la costituzione, o meglio Legge fondamentale, ad aver stabilito in generale l’indeterminatezza nel tempo di ‘pieni poteri’ conferibili all’esecutivo (come risulta confermato dal fatto che anche in materia di immigrazione persiste uno stato di eccezione dal 2015, nonostante il fenomeno in parola sia stato in gran parte ridimensionato), e questo si ritiene possa essere un spunto per più ampie considerazioni, ai fini comparativi, di quelle che si possono fare in queste righe, sia rispetto ai vari ordinamenti sia rispetto a diversificate ipotesi di emergenza in un singolo sistema statale.
Nel caso concreto, la dichiarazione dello stato di pericolo è stata disposta dal governo con il decreto 40/2020, dello scorso 11 marzo. In forza di questo decreto, il governo ha cominciato nei giorni successivi a produrre ulteriori decreti che sono quelli che, in linea di massima, anche negli altri paesi colpiti dalla pandemia hanno posto limitazioni alla vita associata, a cominciare dal social distancing, e che anzi – paradossalmente – nel caso attuale ungherese sono alquanto più blandi delle misure prese per esempio dal nostro ordinamento.
In questo quadro costituzionale si inserisce dunque la legge XII del 30 marzo 2020 sulla protezione dal coronavirus (A koronavírus elleni védekezésről, legge che si autoqualifica cardinale, per numerose disposizioni, ai sensi del suo art. 9).
La legge prevede due nuove fattispecie criminose, destinate a durare anche al di là della cessazione dello stato di pericolo. La prima è quella che, istituendo l’art. 322 A del codice penale, punisce con un numero variabile da uno a otto anni di reclusione, a seconda di varie circostanze, l’ostacolo o l’impedimento di misure per l’isolamento epidemiologico o la quarantena di persone che potrebbero diffondere malattie infettive, o all’implementazione di misure fitosanitarie e veterinarie per bloccare la diffusione delle stesse patologie. Ma è la seconda misura che provoca maggiore allarme. Essa, modificando l’art. 337 del codice penale, sanziona con pene detentive da uno a cinque anni chiunque, «di fronte a un grande pubblico», diffonda notizie false o verità distorte in merito a una emergenza, in modo suscettibile di creare un grave allarme, o tenga comportamenti tali da impedire od ostacolare l’efficace protezione generale contro tali stati di emergenza. Va considerata intanto la formulazione ampia e piuttosto vaga di questi reati, tale da consegnare molta discrezionalità soprattutto alla pubblica accusa, già nota in Ungheria per i suoi legami oltremodo stretti con l’attuale esecutivo. C’è poi da temere che quest’ultima modifica dia la stura alla definitiva intimidazione di ciò che resta di un sistema di informazione indipendente, dato che persino parte di quello privato, in Ungheria, è stato reso molto ‘collaborativo’ grazie a concentrazioni oligarchiche e alla regolazione del mercato pubblicitario.
Si passa poi ad esaminare gli aspetti organizzativi della legge. In primo luogo essa – art. 3, terzo comma – ratifica i decreti adottati a seguito della proclamazione dello stato di pericolo e prima dell’entrata in vigore della legge stessa; con il primo comma, autorizza poi il governo a estenderne l’applicazione per tutta la durata dello stato di pericolo, ciò che in effetti non pare vietato dalla Legge fondamentale, la quale al comma 3 dell’articolo 53 stabilisce bensì la durata quindicinale dei decreti deliberati dal governo ma non fissa limiti temporali espliciti alla proroga concessa dal Parlamento. La legge riserva però al Parlamento – secondo comma art. 3 – la facoltà di revocare l’autorizzazione prevista al primo comma, prima che lo stato di emergenza sia a sua volta revocato. A tal proposito, vi sarebbe da chiedersi che senso possa avere uno stato di emergenza a tempo indefinito entro il quale l’esecutivo sia abilitato a prendere misure straordinarie le quali possono esser lasciate decadere dal legislativo senza che quest’ultimo abbia però il potere di sospendere o porre fine allo stato di emergenza stesso. Da questo punto di vista potrebbe esservi una contraddizione nel testo della LF, che la legge cardinale prova a risolvere con un discutibile accorgimento pratico.
Per quanto riguarda i rapporti con il Parlamento, la legge XII si limita genericamente a statuire – art. 4 – un obbligo di informazione ‘regolare’ da parte del governo, da riferirsi alla sua sede plenaria, come a contrario si ricava dal fatto che, in assenza di sedute parlamentari, gli informati obbligatori sarebbero il solo speaker e i presidenti dei gruppi parlamentari. Da questo punto di vista, la norma pare neutra, nel senso che non determina di per sé la sospensione di alcuna attività parlamentare, ma neanche prevede un coinvolgimento più continuo o frequente dell’assemblea elettiva durante o a causa dello stato di emergenza. Nelle intenzioni dichiarate del legislatore, l’ipotesi restrittiva dell’informazione quasi confidenziale dovrebbe essere limitata ai periodi fuori sessione, o a una situazione in cui la diffusione del virus fosse così grave da determinare un impedimento duraturo di un numero elevatissimo di parlamentari; ma non si può essere certi che non siano tentate operazioni opache tramite i decreti di attuazione, a cui è lasciato eccesivo spazio, senza tenere conto di autolimitazioni compiacenti da parte del Parlamento stesso, che sono già in atto. Analoghe considerazioni possono essere riferite alla Corte costituzionale, di cui l’art. 5 cerca di assicurare la massima operatività possibile, anche prevedendo strumenti di comunicazione elettronici da remoto e deroghe procedurali che vengono comunque rimesse all’autonomia regolamentare del suo presidente (ma non del collegio). Ovviamente questa constatazione legale prescinde da ogni valutazione in merito al ruolo della Corte costituzionale ungherese in seguito alle trasformazioni che hanno avuto luogo da un decennio a questa parte.
Si osserva poi che l’art. 6 dispone in materia elettorale, stabilendo la sospensione e il rinvio a dopo la cessazione dello stato di pericolo di tutti i procedimenti elettorali e referendari già in atto, ma anche di quelli non ancora indetti (le elezioni politiche a scadenza naturale dovrebbero svolgersi nella primavera del 2022), mentre l’art. 8 stabilisce che la decisione in merito all’eventuale abrogazione della legge potrà esser presa a seguito della cessazione della situazione straordinaria. Stando al tenore letterale della legge stessa, quindi, ben due questioni importanti, concernenti i diritti politici fondamentali dei cittadini e la possibilità per il Parlamento di legiferare, sia pure su un aspetto specifico, sono vincolate e subordinate a una decisione governativa.
A questo punto occorre chiedersi: il governo ungherese, il premier Viktor Orbán, puntano veramente a spogliare il Parlamento di ogni residuo potere legislativo o di controllo, indefinitamente o a tempo indefinito? Possono essere interessati a usare il pretesto di una pandemia angosciante, che potrebbe cronicizzarsi nel tempo forse anche con effetti contenuti, per sospendere a discrezione, di fatto cancellare, persino gli ultimi resti di una democrazia di facciata, o puramente elettorale?
I fatti ormai storici ci dicono che da un decennio la presa di Orbán e del suo partito sul paese è incontrastata, per lo meno nella misura in cui il fenomeno politico rilevi nella vita degli esseri umani. E questo è avvenuto in un Parlamento in cui Fidesz ha costantemente mantenuto la maggioranza di oltre due terzi dei seggi, senza che sia pervenuta dall’assemblea alcuna ‘sorpresa’, alcun intralcio lungo il percorso politico del premier, come mero effetto di quell’alterità di organi di cui si diceva prima, per cui ciascun soggetto ha i suoi compiti e poteri, a prescindere dal colore politico. Questo non è mai avvenuto, e allora bisogna chiedersi perché sarebbe necessario impedire al Parlamento di creare quei ‘problemi’ che sembra più che mai improbabile esso abbia intenzione o sia in grado di creare. La risposta è in parte arrivata dallo stesso Orbán, in un’intervista radiofonica all’emittente pubblica Kossuth Rádió in cui ha dichiarato che in effetti non c’è nulla di concreto che egli possa fare grazie allo stato di emergenza e che non avrebbe potuto fare diversamente, solo che quello stato gli consente di fare le stesse cose più rapidamente (e forse persino su questo ci sarebbe da obiettare). Anche per quanto riguarda il processo elettorale, non sembra che ci possa essere un reale, immediato interesse a sopprimerlo e soffocarlo tout court. A dispetto delle recenti elezioni amministrative, che hanno fatto discutere per il successo delle opposizioni democratiche a Budapest e in altre città, tutto lascia l’impressione che Fidesz mantenga a livello nazionale una salda maggioranza attuale e potenziale. Se anche si vuole parlare di democrazia pur di mera apparenza o ‘facciata’ – senza entrare in alcuna disputa in questa sede al riguardo – non si vede perché Fidesz dovrebbe privarsi della soddisfazione di condire con un continuativo, periodico bagno di legittimazione popolare, o magari populista, le sue ambizioni assolute.
Eppure, proprio a questo punto scattano i dubbi su uno stato di emergenza a tempo indeterminato. L’indeterminatezza nel tempo è ciò che rende possibile che lo stato possa essere revocato se rimangono in piedi quelle certezze che si celano dietro i (presunti) veri motivi dello stato di urgenza; mentre è possibile mantenere lo stato di emergenza in vigore se quelle certezze (consenso elettorale, docilità del Parlamento) dovessero venir meno, cercando continui nuovi pretesti che purtroppo non sarà improbabile trovare. E proprio per questo, anche solo a scopo prudenziale, chiunque abbia a cuore le basi del costituzionalismo è giusto che mantenga il più alto livello di diffidenza e di allarme possibile.
[1] Dottore di ricerca in Teoria dello Stato, Università La Sapienza, docente a contratto dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università Cattolica di Milano.
One thought on “L’Ungheria e i pieni poteri a Orbán. Aspetti problematici di una possibile “Koronadiktatúra””